Riforma costituzionale: un bilancio fallimentare

 

 

di franco Bassanini

 

 

in “L’Unità”  del 26 marzo 2004

 

Su una cosa concordano, tutti coloro che fanno sondaggi e indagini sulla realtà italiana. O che, semplicemente, parlano con le italiane e gli italiani, ne conoscono i problemi.. L’insicurezza per il futuro, talora perfino l’angoscia, è il sentimento dominante. Guerra, terrorismo, precarietà del posto di lavoro, declino del Paese, perdita del potere d’acquisto di salari e pensioni, minacce allo Stato sociale, insicurezza dei risparmi di fronte ai crack finanziari: niente è più sicuro. Il nostro, oggi, è un Paese che chiede a chi lo governa, che chiede alla politica, innanzitutto certezze e  sicurezze.

Da ieri, viceversa, un nuovo motivo di incertezza e di angoscia sta davanti agli italiani. Col voto del Senato sul progetto di riforma della seconda parte della Costituzione, la maggioranza parlamentare dà infatti al Paese un ulteriore motivo di angoscia: rischiano di essere cancellate quelle regole  che per cinquant’anni hanno garantito la convivenza democratica e la certezza dei diritti e delle libertà; e hanno rappresentato il quadro nel quale, non senza conflitti anche aspri e battaglie durissime, grandi conquiste sociali sono state realizzate e consolidate. 

La riforma costituzionale approvata non chiude la transizione, non completa la costruzione dello Stato federale, non dà all’Italia le regole di una moderna democrazia dell’alternanza.  Apre anzi una grande questione democratica, minaccia l’unità del Paese, mescola contraddittoriamente derive secessioniste e rigurgiti centralisti. Col voto del Senato di ieri, la liquidazione della Costituzione repubblicana è nell’agenda politica. Le regole democratiche, le garanzie dei diritti e delle libertà che per anni hanno accompagnato il consolidamento della nostra convivenza civile sono a rischio.

Quelle regole avevano bisogno di essere aggiornate e rafforzate, non liquidate. Per questo le forze di opposizione, che con fatica e reciproca disponibilità hanno da alcuni mesi definito una posizione comune e unitaria che copre tutto l’arco dei problemi della riforma costituzionale, si erano dichiarati disponibili a un  confronto serio per portare a  conclusione la troppo lunga transizione costituzionale. E dunque per: completare la riforma federale con la istituzione del Senato federale e la fine del bicameralismo paritario; rivedere e correggere, dove necessario, la riforma del titolo V (nessuna riforma nasce perfetta); definire la cornice costituzionale della democrazia bipolare. Su quest’ultimo punto, le proposte dell’opposizione riguardavano e riguardano principalmente tre punti:

·        Una riforma della forma di governo che concorra a rafforzare la stabilità dei governi e  la coesione delle maggioranze e che dia a chi vince le elezioni gli strumenti necessari per governare.

·        L’ adeguamento delle garanzie costituzionali al sistema maggioritario, per definire con nettezza i limiti del potere del Governo e della maggioranza, le garanzie delle libertà e dei diritti dei cittadini e delle minoranze nei confronti della maggioranza. Democrazia maggioritaria  non significa infatti soltanto dare a chi ha vinto le elezioni  gli strumenti  per attuare il programma di governo, ma anche stabilire limiti precisi ai poteri del governo e della maggioranza e argini invalicabili contro la dittatura della maggioranza e a tutela dei diritti e delle libertà dei singoli.

·        Un adeguamento delle garanzie democratiche: più si danno poteri a chi vince le elezioni, più occorre che la competizione elettorale sia corretta e che i meccanismi democratici siano effettivi. Occorrono dunque regole e strumenti efficaci a garanzia del pluralismo dell’informazione,della parità d’accesso ai media, della trasparenza dei finanziamenti ai partiti, e serie norme sul conflitto di interessi.

 

Queste proposte erano state raccolte in una proposta organica e unitaria di tutte le forze di centrosinistra, da Rifondazione comunista all’Udeur, e tradotte in disegni di legge e in emendamenti. Sono state unitariamente sostenute, con una compattezza degna di nota (di questi tempi). Ma sono state, salvo eccezioni minime e  marginali, tutte respinte da una maggioranza nel fondo profondamente divisa, ma alla fine dominata dagli ultimatum e dai diktat della Lega.

Del testo approvato ieri e risultante da cinque mesi di duro, faticoso e aspro confronto parlamentare può darsi così, in sintesi estrema, questo bilancio:

 

·        Sul terreno delle garanzie costituzionali, invece che un rafforzamento e un adeguamento per compensare il rafforzamento dei poteri della maggioranza e del Governo, si registra un secco arretramento. La maggioranza ha rifiutato di alzare i quorum necessari per modificare la Costituzione e per eleggere il Capo dello Stato e i Presidenti delle Camere: la Costituzione potrà essere modificata a colpi di maggioranza (di una maggioranza che ben può rappresentare una minoranza degli elettori, grazie al sistema elettorale maggioritario); i Presidenti della Repubblica e delle Camere saranno espressione della sola maggioranza; anche la Corte costituzionale sarà, di fatto, designata prevalentemente dalla maggioranza parlamentare. Leggi fondamentali in materia di libertà e diritti (come quelle sul divorzio o sull’aborto, sul diritto alla salute, sull’ordinamento giudiziario) saranno decise di fatto da una sola Camera eletta con  sistema maggioritario  e che il premier potrà condizionare  con il voto bloccato e la minaccia di scioglimento (nella Costituzione del ’47, le leggi richiedevano invece il consenso di due Camere elette entrambe con la proporzionale, non era previsto il voto bloccato, lo scioglimento era deciso dal Capo dello Stato).

·        Sul terreno delle garanzie democratiche, la maggioranza ha respinto tutte le proposte dell’opposizione sul pluralismo dell’informazione, sulla parità di accesso ai media, sui conflitti di interesse.

·        Per la forma di governo, la maggioranza sostiene di essersi ispirata al premierato britannico. Ma in realtà propone un sistema che attribuisce al Primo ministro per cinque anni un potere assoluto e incontrollato. Esso rischia di innescare derive plebiscitarie o peroniste.  Un solo esempio: se la Camera dei Comuni vota la sfiducia a Blair, Blair si dimette e il gruppo laburista designa il suo successore; ma se la Camera italiana voterà la sfiducia al premier, la Camera sarà automaticamente sciolta (e dunque non voterà mai la sfiducia). In più, si prefigura un sistema elettorale che condurrà necessariamente a una forma di elezione diretta del premier, ignota al sistema inglese e a tutti i sistemi europei L’elezione diretta del Capo del governo è propria infatti dei sistemi presidenziali; ma il Presidente americano non può sciogliere il Parlamento, non può mettere la fiducia sulle leggi, non può farsi dare deleghe legislative, non può neppure nominare ministri, ambasciatori, direttori di agenzie federali senza il consenso del Senato.

·        Invece di perfezionare e completare la riforma federale dello Stato, si introducono innovazioni contraddittorie, e pericolose per l’unità d’Italia. La maggioranza ha rifiutato le proposte di correzioni e integrazioni al titolo V provenienti anche dalle sue fila. Le uniche modifiche del titolo V sono quelle, devastanti, pretese dalla Lega. E dunque: la devolution in materia di istruzione, sanità e polizia locale, che disarticola servizi essenziali come la scuola pubblica e il servizio sanitario nazionale, e mette a rischio l’universalità dei diritti all’istruzione, alla salute, alla sicurezza; malamente compensata dalla introduzione della potestà del Senato di proporre al Presidente della Repubblica la bocciatura di qualunque legge regionale per violazione dell’interesse nazionale, anche in materie di squisito interesse locale. La devolution spacca l’Italia. La clausola dell’interesse nazionale, configurata in questo modo, rende il federalismo una farsa.

·        Quanto al Senato federale, nella forma proposta esso non ha nulla di federale ed è giustamente contestato dalle Regioni. La contestualità fra elezioni del senato ed elezioni dei consigli regionali avrebbe dovuto, secondo la maggioranza, “regionalizzare” il senato. Ma rendendo le elezioni contestuali anche all’elezione della Camera dei deputati e del premier, sarà l’elezione del premier (Berlusconi o Prodi) l’elemento dominante. E così, partiti per regionalizzare il senato, finiscono per nazionalizzare (o premierizzare) anche i Consigli regionali.

Così come è uscita dal Senato, la riforma è inemendabile. Alla Camera dei deputati passa ora il compito di fermarla. Alle forze politiche e alle organizzazioni democratiche della società civile (CGIL e Libertà & Giustizia hanno già cominciato a farlo) il dovere di lanciare l’allarme, e di informare i cittadini, che, alla fine, decideranno con l’arma del referendum.  Ma gli elettori hanno la possibilità di dare un segnale forte, ben prima del referendum, con il voto di giugno. Da ieri, è chiaro che non sarà  solo un voto per l’Europa democratica e per il buon governo delle nostre città. Sarà anche un voto per difendere la Costituzione repubblicana, le sue regole democratiche. E l’unità d’Italia, nell’Europa unita.